venerdì 7 aprile 2017

Vicentini "Magnagati"

Perché i vicentini sono “magnagati”?

Beppe Bigazzi scacciato dalla trasmissione televisiva "La prova del cuoco" trova riferimenti per la sua affermazione in antichi documenti anche inglesi

di Gianni Giolo 
Per aver sostenuto che i gatti in padella "sono molto più buoni di tanti altri animali", Beppe Bigazzi è stato cacciato dalla trasmissione "La prova del cuoco", vittima illustre del "gato in tecia", come i vicentini che da cinquecento anni sono chiamati "magnagati". Da dove nasce questa nomea? A questi interrogativi cerca di dare una risposta Antonio De Lorenzo, nellibro "Vicentini magnagati" (Terra Ferma), anche se non riesce a dare una risposta esaustiva sull'origine di questo detto. Di Lorenzo è un cultore di cose vicentine e sotto lo pseudonimo di "Anonimo Berico" ha scritto libri di irresistibile e intelligente comicità come "Il dono dell'Ubiquità" (Galla libreria editrice) e "L'Arcipelago Gulasch".Sono state verificate le leggende e i racconti popolari che associano i vicentini ai gatti. 
Antichi proverbi
La più importante stanel documento più antico (1535), citato nei proverbi di Manlio Cortelazzo, in cui si parla di vicentini e gatti, il che potrebbe significare semplicemente che i primi sono "furbi", perché nel dizionario del dialetto vicentinoTurato-Durante "gato" è sinonimo di uomo accorto. Le accezioni gastronomichetrovano documento nel decreto salva-gatti del prefetto nel 1943 che proibiva, in un periodo bellico di fame e carestia, di uccidere e mangiare i gatti, decreto, peraltro, emanato non solo a Vicenza, ma in tutte le province d'Italia.Ulderico Bernardi, in "Veneti", associa l'epiteto a "episodi bellici medievali, in cui i vicentini, ridotti allo stremo si sarebbero mangiati anche i gatti".
Anche gli inglesi
Comunque non sono solo i vicentini a essere chiamati "gattofagi", ma anche Charles Dickens, ne "Il Circolo di Pickwick", scrive di un "pasticcio di gatto", mangiato allora abitualmente dagli inglesi. Hanno il felino fra le loro ricette tradizionali i cinesi della provincia del Guangdong, dove sembra che finiscano nel piatto quattro milioni di mici all'anno. Quindi non solo i vicentini hanno questa triste nomea di divoratori di felini ed allora sorge il problema storico da dove possa essere nata questa antichissima e storica diceria.

Lo sfottò dei padovani
L'unico collegamento storico è rintracciabile nel 1509. Padova è attaccata dalle truppe della lega di Cambrai, allestita contro la Serenissima Repubblica. Tra gli aggressori ci sono i vicentini, tradizionali nemici dei sudditi dei Carraresi. E sarebbe a loro che i padovani mostrano in segno di disprezzo dall'alto delle mura una gatta appesa a una lancia: «Lo sfottò era riferito alla macchina da guerra conosciuta come "il gatto" e utilizzata anche dalle truppe imperiali». L'invito è a sfondo sessuale: «Venite a prendere, nel senso biblico di "possedere", la gatta, se ne siete capaci».

Le leggende
Poi ci sono le leggende. Una raccolta dello scrittore Virgilio Scapin, secondo il quale negli anni Venti del ‘400 i veneziani invasi dai topi avrebbero chiesto alcune centinaia di gatti a Vicenza (città che sarebbe stata piena di gatti richiamati dall'aulente profumo del baccalà), ma i vicentini non riuscirono a rispondere all'appello perché i gatti erano tutti spariti "come se qualcuno se li fosse mangiati". Un'altra racconta il contrario: furono i vicentini, preoccupati da un'invasione di topi agli albori del Settecento, a chiedere ai veneziani una fornitura di felini rastrellati per calli e campielli e portati sotto il monte Berico in barca lungo il Bacchiglione per non essere mai più restituiti.

L'ipotesi più credibile
Fra tutte le ipotesi più o meno bislacche sull'origine del detto che lega indissolubilmente i vicentini ai gatti c'è quella sostenuta dal cultore di cose vicentine Emilio Garon, in un articolo del Giornale di Vicenza del 14 maggio 2006. Il Garon fa riferimento a «una teoria di origine fonetica, trascurata nelle attuali considerazioni, ma conosciuta già dall'Ottocento. Trova fondamento dalle parlate locali, quando per dire la frase "hai mangiato" in dialetto veneziano si pronunciava "ti ga magnà", in padovano "gheto magnà", mentre nel dialetto antico vicentino si affermava "gatu magnà". Questa pronuncia - sottolineaGaron - diede probabilmente origine al soprannome di "magnagatu" o "magnagati" dato in senso spregiativo dai rivali veneti ai vicentini. Che i veneziani poi avessero il gusto di affibbiare soprannomi con la desinenza "magna" è noto: indicavano come "magnagiasso" certi pescatori, davano dei "magnamaroni" ai ruffiani, dei "magnacarta" agli scribacchini, dei "magnamocoli" alle persone bigotte, e dei "magnamerda" a un qualsiasi individuo genericamente oggetto di disprezzo».

L'ipotesi Lalande
Non manca un'altra interpretazione dovuta questa volta a un francese Jerome Lalande, direttore dell'osservatorio astronomico di Parigi, che nel 1765 visitò Vicenza, una città diversa dai soliti stereotipi di una Vicenza bigotta tutta casa e chiesa. Scriveva lo scienziato parigino che i vicentini erano montanari selvatici e violenti al punto che quell'anno c'erano stati in provincia 300 omicidi su 200mila abitanti (cioè uno ogni 666 abitanti: 144 volte più di oggi) e che per questa loro rissosità si dicevano "vicentini cani e gatti" oppure "magnagatti".

La celebre filastrocca
La diceria dei vicentini "magnagati" è stata codificata nella celeberrima filastrocca riportata nella "Raccolta di proverbi veneti", libro pubblicato a Venezia nel 1879: «Veneziani gran signori; Padovani gran dotori; Vicentini magna gati; Veronesi tutti mati; Udinesi, castellani, col cognome de furlani; Trevisani pan e tripe; Rovigoti, baco e pipe; i Cremaschi, fa cogioni; i Bressan, tagiacantoni; ghe n'è anca de più tristi: bergamaschi brusacristi; e Belun? Poreo Belun, te sé proprio de nisun».
Il proverbio è ricordato da molti autori, a iniziare nell'Ottocento da Cristoforo Pasqualigo, sino al recentissimo "Veneti" di Ulderico Bernardi. Come si vede l'ampiezza di riferimenti va oltre il Veneto, toccando tutte le città maggiori della Serenissima, compresa Crema e soprattutto Bergamo. Proprio il riferimento bergamasco serve a dare collocazione storica al proverbio: un ghibellino bergamasco, infatti, nel 1444 bruciò a Crema un crocifisso perché sosteneva fosse guelfo.

L'identità di una città
Anche questa definizione temporale (il 1444) serve a riferire al XVI secolo questo "blasone popolare". Va ricordato che tale blasone definisce l'identità di un popolo e di una città. Difficile, se non impossibile, individuarne la paternità: ne esistono molte varianti, tra cui «Veneziani gran signori, Bolognesi gran dottori», che sfratta Padova dal ruolo di dotta e lo riferisce a Bologna. «I detti multipli - spiega Luciano Morbiato - partono da qualità evidenti di alcuni soggetti e devono essere completati con altre qualità, inventate o verosimili, o solo buffe, attribuite ad altri". Non sempre Vicenza è collegata, nei "blasoni" all'appellativo gattesco. Ecco un esempio che ne esalta la nobiltà: «Vicensa pomposa, Marostega tegnosa, Padoa studiante, Treviso tripante, Basan mercante, Asolo furfante, Quer castagner, Feltre polenter». Il collegamento al numero dei nobili del Vicentino è confermato da un altro proverbio del '500 assai celebre, che recita. «No ga Venesia tanti gondolieri, quanti Vicensa conti e cavalieri».
Intanto, a Vicenza il gatto è la bandiera dell'identità civica, di associazioni e gruppi di ogni genere, ma anche dell'autoironia dei vicentini che sorridono su questo soprannome.

nr. 07 anno XV del 27 febbraio 2010

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(2a parte dal minuto 34.40)